C’è un qualcosa di misterioso, di ancestrale nella musica degli Anubis Gate. La trovo, ogni volta che la sento, rilassante e inquitante al tempo stesso. I cinque Danesi giunti al loro quarto lavoro in studio si ripresentano a noi con un album che farà parlare di sè per la grande varietà di elementi che contiene. Il cambio di vocalist si sente eccome, molto più che nel precedente Andromeda Unchained, album che pure aveva già positivamente fatto parlare di sè in ambienti metal e non solo.
Cosa offrono questi Anubis Gate? Innanzi tutto un disco molto lungo ma che assolutamente non stufa anzi, sa rinnovarsi sempre e di continuo alla ricerca di novità e nuovi mondi da esplorare. Per tutto il cd i due chitarristi si rincorrono giocando tra loro a creare un riff in grado di superare quello dell’altro, come in una gara in cui vince che fa salire di più l’applausometro, mentre il buon (anzi ottimo) Hansen si danna l’anima per restare al passo raggiungendo tonalità veramente notevoli. Definire questo genere è difficile, poichè troppi sono gli elementi che caratterizzano questa musica… nella medesima song è possibile trovare un inizio power, uno svolgimento classic e un finale puramente prog e via discorrendo. L’unico accostamento potrebbe essere, nei tratti più marcatamente progressive, ai maestri per antonomasia del genere progressive, i Dream Theater, ma anche questo paragone starebbe stretto ai nostri.
Sfoderano forse l’album del definitivo salto di qualità, con l’inaugurale “On The Detached” che parte in chiave power classico per svilupparsi in quel disegno fortemente caratteristico della band che prevede chitarre veloci e potenti, accompagnate da un precisissimo drumming, sovrastate o accompagnate da keys puramente prog. L’ottimo inizio altro non è che un riscaldamento per il capolavoro del disco, ovvero il trittico Find A Way (Or Make One)- Yiri – Lost In Myself, in cui la band si dedica ad un power di matrice scandinava decisamente brillante, con l’orecchiabile “Lost in Myself” a fare la parte del leone per la sua immediatezza e semplicità, nonostante il songwriting tutto sia meno che complesso o originale.
Poi il cd prosegue, su ottimi livelli, questo si, ma compare in maniera più forte le sperimentazione, che rende il tutto meno immediato e richiede diversi ascolti per essere decifrato, pur portando le credenziali della band ad innalzarsi ancora. La sovrapposizione della voce ai cori, delle chitarre tra loro e tra loro e le tastiere diventa a tratti un po’ troppo particolareggiato e contorto, organizzando trame certamente complesse (sorrette anche da un drumming a doppia cassa a tratti!) che infittiscono le song, rendendo il suono meno aperto e portando all’ascoltatore la già citata sensazione di pura inquietudine. “Dodecahedron” è la migliore sintesi di questa descrizione.
“Pyramids” ha un non so che di arabo, orientale nelle note distorte delle sei corde elettriche, mentre i toni si calmano un po’ con la pesante “Out of Time”, forse uno dei pochissimi momenti di relax dell’intero disco, con comparse di attimi di chitarra acustica a tessere tele intriganti con le sorelle elettriche.
Colpo di classe nel finale con la lunghissima “Options – Going Nowhere” a farci capire, come se i precedenti quaranta e passa minuti di musica precedente non fossero bastati, che questi cinque musicisti devono essere tenuti d’occhio, perchè oltre a classe e tecnica hanno idee originali e innovative. Cambi di tempo, cori, riff pesanti e chi più ne ha più ne metta, per questa “ouverture” finale strana ma intrigante.
Promossi a pieni voti.

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