Non sarà certo il nostro resoconto ad aggiungere o togliere fan ad una band gloriosa come gli UFO. “The Visitor” è infatti il capitolo numero venti della loro carriera, l’ennesimo di un percorso lunghissimo iniziato nel 1972 e proseguito fra continue trasformazioni e rinascite. Senza tralasciare una manciata di dischi, quelli dell’era Schenker, da consegnare agli annali dell’heavy metal.
Pur mancando dello storico bassista Pete Way, che ha dovuto abbandonare l’astronave per i ben noti problemi di salute, la band non si è persa d’animo e ha confezionato il consueto gioiello di sano hard rock settantiano, l’ennesimo di una storia su cui proprio non si vuole apporre la parola fine. Dischi alla mano, non possiamo dar loro torto. Difficile elencare un fattore decisivo per spiegare questa seconda giovinezza. L’innesto di Vinnie Moore si è rivelato da subito vincente; Phil Mogg dal canto suo tiene ancora duro, grazie alla sua voce calda e sorniona; Paul Raymond mette in campo tutto il suo mestiere alternandosi fra tastiere e chitarre, mentre il redivivo Andy Parker chiude il cerchio con un solido drumming d’annata.
Gli UFO sono una band che prosegue per la propria strada, incurante degli anni che passano, delle mode che si susseguono, di una visibilità che viene e che va (la tourneè estiva li ha visti presenti persino a Wacken), capace oggi di sfornare un disco dal songwriting solido e dalla produzione praticamente perfetta, che supera di gran lunga gli standard del suo genere.
“The Visitor” è il disco in cui l’inserimento di Vinnie Moore nei meccanismi della band giunge alla sua massima espressione; uno stile frizzante il suo, fatto di passaggi chitarristici di chiara matrice blues, tocchi di slide, stacchi semi acustici, splendidi assoli traboccanti feeling e melodia; oggi più che mai è lui l’ago della bilancia.
L’apripista “Saving me” è il pezzo che sintetizza meglio di altri le caratteristiche di un disco che alterna momenti di grande energia alla maniera di “Hell Driver” ed atmosfere più rilassate tipo “Can’t Buy A Thrill” e “Stop Breaking Down”, quest’ultima impreziosita peraltro dall’ennesimo assolo d’alta scuola. La band inglese ci regala, un po’ a sorpresa, “Forsaken” e “Rock Ready”, due splendidi esempi di sano rock n’roll degno dei migliori Rolling Stones. Discorso a parte merita invece la conclusiva “Stranger In Town”, pezzo superlativo che pare uscito da una session dei Deep Purple di “Perfect Strangers”.
Difficile chiedere di più ad una band del genere. La ricetta è sempre la stessa, ma è come se gli ingredienti venissero dosati ogni volta in maniera diversa. E il tutto appare, ancora una volta, nuovo e genuino. Bastano pochi secondi iniziali di questo CD per mettere da parte tutto ciò che è nuovo e moderno. E’ una reazione quasi automatica, provare per credere. Un po’ come sentirsi di nuovo a casa.
Non stiamo parlando di “Phenomenon”, né di “Obsession” o di “Lights Out”, questo è scontato, ma abbiamo comunque un disco che brilla di luce propria e che nella sua semplicità riesce ancora una volta a stupire, a scaldare i nostri cuori e farci muovere le anche come nella tradizione dei più grandi gruppi rock n’roll.
Cento di questi dischi, UFO!

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