“Non è country, non è rock, non è blues, sono i… The Bonesmen!”. Così recita la biografia ufficiale di questo quartetto americano e fa intendere che la band sia una dosata unione di tutti questi elementi e, in effetti, è proprio così. Eppure bisogna sempre vedere in che quantità vengono miscelati gli ingredienti, perché la zuppa venga gustosa e saporita al punto giusto. Quindi diciamo subito che i The Bonesmen vorrebbero essere i Kiss, senza se e senza ma e sin dal titolo del loro album. Il sound è quello dei primi dischi del Bacio più famoso del rock, con forte e dichiarata matrice blues, cori e assoli di scuola seventies, peccato che siamo nel 2010, quindi se quel tipo di sonorità andava bene 40 anni fa, oggi risulta essere un po’ datato, quantomeno nella produzione. I bei tempi in cui i Led Zeppelin riempivano le arene sono passati, ma sembra che non sia così per tutti, e la cosa andrebbe anche bene, se non fosse che le canzoni qui presenti suonino prive di mordente e senza lo spirito di ribellione di quei tempi.
Quello che non va è proprio il fatto che i riff sono spenti, suonati quasi come se si fosse costretti a farlo e senza il minimo feeling che il genere richiederebbe. Forse è colpa dei suoni, ma non credo si possa imputare solo ad una registrazione di bassa qualità. Sicuramente il cantato di Frank Thomas è troppo sgraziato e, in taluni frangenti, quasi stonato, così come lo sono spesso e volentieri i cori che alcune volte risultano fuori luogo e fastidiosi.
Insomma, quello che ne esce fuori non è certo un bel ritratto e quest’opera non risulta essere una di quelle che si faranno ricordare nel tempo. Quello che mi verrebbe da consigliare ai The Bonesmen è di riuscire a creare un sound più personale e di usufruire di tecnologie che possano loro permettere di avere suoni più potenti ed heavy. Inoltre potrebbe essere un’ottima cosa macinare chilometri di strada e “rodare” il più possibile le proprie canzoni. Questo dovrebbe bastare a rendere la loro proposta più matura.

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