Esistono diversi modi in cui un disco può conquistare le grazie dell’ascoltatore e “rubargli” così
tempo nella sua quotidiana routine. Alcuni dischi infatti ti piacciono subito ma poi, sfortunatamente,
si spengono dopo poco per non tornare più fra i dischi più ascoltati. Altri album invece hanno una
curva d’apprendimento molto più ripida, all’inizio l’ascolto dice poco o nulla, ma si sente un qualcosa
che ci forza quasi a riascoltarlo fino a riuscire a capirlo davvero. Vi è poi una terza via, forse la
più completa, in cui un disco ti prende subito fin dal primo ascolto ma non ti molla più. In questi
casi il disco viene messo su a ripetizione, si colgono ogni momento sfumature nuove e si è davvero
nell’imbarazzo a dover scegliere una canzone preferita. Questi dischi di solito sono molto rari, ma
“Winterheart’s Guild” ci ricade a perfezione.
I cinque giovani finlandesi, dopo l’ottimo esordio “Ecliptica” datato 2000 e lo splendido “Silence”
dell’anno successivo, piazzano davvero un “three-in-a-row” con questo nuovo album e si consacrano, a mio
avviso, come leader incontrastati della scena nordica per quanto riguarda il metal melodico (e finiscono
sicuramente nelle primissime posizioni anche allargando la visuale all’Europa e al mondo intero).
Davvero straordinari, nonostante un cantante non eccelso come Tony Kakko che però risulta fondamentale in fase di songwriting.
La peculiarità che caratterizza i Sonata Arctica e li rende diversi
da altri gruppi (un nome su tutti: Stratovarius) è l’uso assolutamente personale delle melodie. Nessuno
attualmente presenta un gusto melodico simile, e forse l’appellativo “power metal” va un po’ stretto,
dato che il gruppo finlandese affonda saldamente le sue radici anche in certo hard rock melodico di metà
anni ’80.

Passando ad una analisi più mirata di questo nuovo lavoro, ribadisco come già accennato in precedenza
che mi è praticamente impossibile trovare una canzone preferita da mettere sopra le altre: ci si può provare,
ma ogni volta il risultato sarà diverso.
“Abandoned, Pleased, Brainwashed, Exploited”, nonostante il nome chilometrico è una perfetta opener.
Diretta e incisiva, si fa subito apprezzare e cattura l’attenzione dell’ascoltatore nelle prime esplorazioni
di questo disco e lo traghetta verso “Gravenimage”. Questa è invece una mid-tempo, che forse è la cosa che
meglio riesce ai Sonata e che più li caratterizza. La canzone ha un mood malinconico, che ben si sposa
con il testo, ma non risulta pesante o indigesta, necessita solamente di qualche ascolto in più per
essere apprezzata completamente.
Cosa non necessaria invece a “The Cage”, introdotta da uno straordinario
assolo di tastiera della guest-star Jens Johansson. Il tastierista qui riesce, differentemente da quanto fatto
negli ultimi lavori degli Stratovarius, a creare un solo velocissimo, tecnico all’esasperazione ma pieno di
feeling. Tutta la canzone è su questi altissimi livelli, sia per qualità che per velocità e ritmo. Ed anche
in questo caso dando uno sguardo ai testi è impossibile non notare come il gruppo finlandese riesca a legare
indissolubilmente quello che vuole dire (testo) con il modo in cui lo dice (musica): “The Cage” è incentrata
sulla voglia, sulla disperata ricerca di libertà, fisica ma soprattutto spirituale, e la musica si sposa
perfettamente con questo tema sottolineandolo con energia.
“Silver Tongue” viaggia invece su ritmi più calmi, e basa la sua forza essenzialmente sui bridge e sul ritornello;
ha un buon tiro e si lascia ascoltare ottimamente, e serve perfattamente a smorzare un po’ i ritmi per passare
a “The Misery”, che incarna la classica ballata che non può mancare in un disco dei Sonata. Se all’inizio può
sembrare un po’ stucchevole, col tempo questa canzone non potrà non conquistare i più romantici. Se vi è piaciuta
“Tallullah” comunque, non potrete non amare anche questa sin dal primo ascolto.
Cambio completo di registro con la veloce, briosa e piena di vita “Victoria’s Secret”. L’intro può far venire
in mente canzoni come “San Sebastian”, ma poi nel proseguio la canzone si sviluppa su binari assolutamente
originali. Stupendi in particolare i passaggi melodici fra strofa e ritornello, ma questa si sa è una specialità
di Kakko e soci, che ci mostrano in queste sei tracce il perfezionamento, il riassunto riveduto e corretto di
quanto fatto nei due precedenti lavori. Ma a questo punto vi è una sottile e invisibile linea di confine, dato
che “Champagne Bath” fa da spartiacque fra il “classico” ed un suono diverso, con queste restanti quattro traccie in cui
si sperimentano soluzioni nuove, spaziando in altri lidi ma centrando sempre e perfettamente l’obbiettivo.
Se dovessi riassumere in una sola parola questa “Champagne Bath”, il lemma scelto sarebbe sicuramente “baldanza”.
Nella sua breve durata (sotto i quattro minuti) si mischiano elementi tipici del metal melodico nordico, come il suono di clavicembalo, con un mood assolutamente inusuale per i Sonata Arctica, creando un mix riuscito e che ci traghetta verso “Broken”, dove si osa ancora di più nel variare le sonorità.
Questa mid-tempo è sicuramente la canzone più difficile da digerire del disco, all’inizio
può sembrare quasi pesante, ma col tempo e soprattutto gli ascolti si riesce meglio a dipanare la matassa e
ci si trova di fronte a qualcosa di assolutamente personale e che sta quasi a proclamare “Noi non c’entriamo nulla
con Stratovarius o gruppi simili, noi siamo i Sonata Arctica”. Ed il confronto con gli Stratovarius, dopo questo
“Winterheart’s Guild” diventa davvero sconcertante. A mio avviso infatti i Sonata Arctica con soli tre dischi sono
riusciti quasi a spazzare via completamente la discografia del gruppo multi-nazionale (appellativo riferito alle
diverse patrie natali dei componenti del gruppo, sia chiaro). Molti potranno non essere in accordo con me su questa
affermazione ma, ripeto, secondo me è invece una verità lampante.
Proseguendo con il track by track del disco, è la volta di “The Ruins of my Life” e c’è di nuovo una sterzata
e un mutamento. Questa è infatti una canzone dalle tinte epicheggianti, a partire dal metaforico testo che parla
di un soldato partito per seguire la guerra, per guadagnare di più per lui e per il suo Paese e che finisce
solamente per perdere quanto di bello e buono aveva invece già ottenuto. Sinceramente a un primo ascolto, voce
di Tony Kakko a parte, ho quasi ritenuto impossibile fossero i Sonata Arctica. Veramente una bellissima canzone per
ritmo, incedere, per i break al punto giusto e anche, perchè no, per il bel testo che la accompagna.
Infine, come una ciliegina su una torta già succulenta, ecco arrivare “Draw Me”. Anche questo è un lento, ma è
completamente diverso da quanto mai fatto fino ad ora dal gruppo. Delicata, sussurrata, con un Kakko che abbandona
tutti i suoi limiti e mostra di quanto può essere capace. Vibrante, calda ma distaccata, dolce e malinconica allo
stesso tempo, pure emozioni in musica. Breve ed intensa. Un gioiello incastonato in un album praticamente perfetto.
Purtroppo sono certo che “Winterheart’s Guild” non verrà mai capito fino in fondo come meriterebbe, verrà considerato
da alcuni un bell’album, da altri un brutto album, ma sempre un album di “power metal”, del “solito power metal”. Beh, questo è quanto di più sbagliato si possa fare perchè non è assolutamente così, e anche fossi l’unico al mondo
a dirlo, non posso fare altro che pensare: bravi ragazzi, ci siete riusciti.

Un’ultima postilla “tecnica”: il tastierista Henrik Klingenberg non ha suonato sull’album, dato che solo recentemente
è entrato come mebro effettivo dela band in sostituzione di Mikko Harkin. Nel disco diversi assoli sono opera di Jens Johansson, mentre le altre parti di tastiera sono dello stesso Tony Kakko.

Davide Ferrari

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