Quale migliore sede, se non questa sezione ‘Old Work’, per porre in risalto le qualità di gruppi magari scomparsi da tempo, ma che con i loro album sono stati capaci di lasciare un ottimo ricordo di sé, e magari anche un cospicuo apporto innovativo? L’occasione è tanto più appetibile quanto meno gli artisti in questione abbiano raggiunto il grande pubblico, fruitore fisiologicamente passivo e del pari poco incline allo scandaglio dei ‘sotterranei’.
L’entità musicale di cui ora vi parlo, nata a San Diego verso la metà degli anni ’80 e di cui ‘Bleeding’ rappresenta il canto del cigno, è un caso esemplare del fenomeno a cui accennavo. Malgrado le numerose trasformazioni, tanto nella formazione (facente perno sulla figura di Dan Rock) quanto nel sound proposto, ci viene documentato un iter artistico del tutto refrattario a suggestioni di mercato, e tanto genuino quanto notevole nei risultati.
Senza indulgere troppo al dettaglio, parlare di semplice ‘heavy metal’ per gli Psychotic Waltz è senz’altro riduttivo, ma è la base irrinunciabile da cui partire per tentare di descrivere un suono con svariate ramificazioni e così cangiante nel tempo: sono lontane le asperità e le (fors’anche ingenue) sperimentazioni del disco di esordio, ‘A Social Grace’ (1989), che poteva già vantare un approccio unico nel suo genere; così come del secondo ‘Into The Everflow’ (1992), col suo stile se possibile ancora più spezzettato e con cadenze, a tratti, decisamente progressive (e una stralunata cover di ‘Purple Haze’ di Jimi Hendrix). Lontane, certo, ma è proprio in ‘Bleeding’ che delle tormentate frequentazioni degli anni precedenti si estrae la linfa, il distillato, che va ad impreziosire e colorare di originalità un impianto sonoro decisamente più diretto e groovy.
La semplificazione della proposta musicale era avvenuta due anni prima di ‘Bleeding’, con il terzo lavoro della band, dal titolo ‘Mosquito’: qui la preziosa opera di engineering di Scott Burns (produttore di act del calibro di Cannibal Corpse, Death, Deicide, Sepultura, Obituary e molti altri) e di mixaggio presso gli arcinoti Morrisound Studios di Tampa, hanno contribuito in maniera decisa a irrobustire brani più immediati e rocciosi, gettando le basi per quella che sarebbe stata l’ultima, e a mio parere più riuscita, prova di questa particolarissima band.
L’incipit inchioda chi ascolta: un basso slappato guizza, disegnando il riff portante (efficacissimo, come tanti lungo l’intero lavoro), seguito a ruota da una chitarra ruggente che lo duplica, stagliandosi su un drumwork essenziale ma di sicuro impatto. Sembra di ascoltare il groove dei primi Faith No More, unito la follia industriale di certi Voivod e alle tinte quasi gotiche dei Cathedral.
I brani si dipanano con fluidità, senza essere avari di buone melodie ad opera dell’ipnotica voce di Buddy Lackey, perennemente carica di un riverbero che la fa sembrar giungere da un’altra dimensione. Non va dimenticato il ruolo delle tastiere, ora mediante semplici arpeggi pianistici, ora con tappeti d’atmosfera, ma che mai minacciano la robustezza dell’insieme, risultando assolutamente funzionali e appropriate ad ogni singolo momento. Undici canzoni (e sottolineo il termine, a beneficio di chi si possa allarmare nel leggere, nella medesima recensione, parole quali ‘progressive’ e ‘tastiera’), senza alcuna caduta di tono. Ci sono al contrario numerose impennate, su uno standard qualitativo decisamente alto, rappresentate da ‘Locust’, in mirabile equilibrio fra potenza e drammaticità; dalla title track, dall’incedere quasi doom; e dalla ballad ‘My Grave’, quattro stupidissimi accordi ma quanta magia, anche grazie a un solo di flauto da lucciconi (omaggio ad Ian Anderson, sicura fonte di ispirazione negli anni addietro?). Testi semplici, ma intensi e talvolta anche crudi, anche su tematiche religiose (‘Morbid’), e in generale permeati di densa cupezza. Lo splendido artwork disegnato da Travis Smith (che ha lavorato per Death, Control Denied, Iced Earth, Devin Townsend e molti altri artisti metal), va ben oltre la front cover, dedicando un’immagine ad ogni brano nelle pagine del booklet.

In conclusione, ‘Bleeding’ rappresenta senz’altro un unicum nel variegato panorama heavy metal della scorsa decade, sul quale i più attenti appassionati del genere non possono (se mai lo fossero stati) rimanere ignari. Così come può valere la pena di seguire le vicende dei componenti del gruppo dopo lo scioglimento (sulle quali non è il caso dilungarsi qui), non del tutto prive di interesse, e non solo per chi ha amato gli Psychotic Waltz.

Pietro

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