Con la recente ondata di prog svedese giungono anche questi Paatos. Forse non è giusto parlare di prog perchè se ne discostano vistosamente mantenendo, come unico punto di contatto, quella sottile malinconia che ormai sta fecendo storia (basti pensare al successo dei Pain Of Salvation).
Musicalmente i Paatos hanno poco a vedere con il rock e assolutamente nulla con il metal, ma ciò non toglie che questo disco sia, per certi versi, intrigante.
Parlavo della malinconia, di quella sottile e delicata visione che solo gli svedesi hanno della musica, che traspare spesso dagli arrangiamenti, e dalla produzione di Steven Wilson dei Porcupine Tree, che dona a questo prodotto un tocco notevole.
A metà strada fra Portishead, The Gathering e The 3rd And The Mortal, i Paatos cercano la sintesi perfetta fra rock e musica elettronica, trip-hop per essere precisi, e jazz (seppur minimamente) riuscendoci sicuramente ma con qualche piccola lacuna.
Le tracce della loro evoluzione possono essere comprese ascoltando l’iniziale “Gasoline” e qualsiasi altro brano del disco. Il loro stile si è evoluto divenendo più delicato e meno irruente, risultando essere adatto ad ascolti da camera, soft quindi. Spesso il pianoforte lascia nell’aria il suo suono dolce oppure lascia il posto ad un violoncello stridulo e cerebrale così come una chitarra, spesso ispirata dal jazz, riesce a dimostrarsi come il migliore accompagnamento per la bella voce della cantante, sempre ispirata ed emozionante.
Per dirla breve è il classico album spiazzante, che non puoi comprendere appieno neanche con svariati ascolti bensì solamente col passare del tempo. Un album dalle potenzialità commerciali notevoli (basti ascoltare la bellissima “Happiness”) che possiede l’energia del rock applicata quelle dolci ed aspre atmosfere tipiche del trip-hop.

“Kallocain” contiene ottimi brani che difficilmente potrebbero non piacere a chi mastica certe sonorità e anche a chi è abituato ai soliti gruppi che passano di continuo alla radio. Molto bella “Holding On” e davvero stupenda “Absinth Minded”, breve e intensa, in cui la cantante è molto vicina alle linee vocali di Anneke. Da brividi l’interpretazione in “Stream”, canzone lenta e sofferente, accompagnata da una chitarra favolosa, morbida e jazzata, davvero da oscar!
L’unico appunto che posso fare è quello che tutto, spesso, ruota intorno alla voce della cantante restando quasi nell’ombra e, ascoltando le potenzialità della band, posso dire tranquillità che è davvero un peccato.
Detto questo mi rendo conto che “Kallocain” è un ottimo album ma che, sicuramente, soffrirà della sua appartenenza forzata al metal, una appartenenza logorante direi. Pur ignorando il loro passato discografico per me, “Kallocain”, resta un gran bel disco. Da avere sicuramente.

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