Originari di Bristol, arrivano in Italia grazie al buon lavoro promozionale della sempre attiva Dark Balance questi My Silent Wake, band britannicca attiva da diversi anni e con alle spalle tre album di cui uno doppio, di buon doom-death metal di stampo ottantiano, che mixa in sè caratteri che spaziano apertamente dal viking al doom più classico, al classic metal ottantiano di Sabbatiana memoria, fino a toccare epicità di gruppi quali Therion e Sirenia, in un condensato di oscurità e malinconia.
Malinconia, attenzione, non desolazione e tristezza, poichè nonostante l’andatura sempre pesante e grave delle song non si giunge mai a quel lento incedere grave (e spesso anche troppo pesante per l’appassionato del genere, figuriamoci per i neofiti) e incessante che spesso viene associato al doom. Non è musica da cimitero dunque… forse da uggiosa giornata novembrina si, o da nebbiosa notte di dicembre, ma nulla più oscuro e cupo.
I nostri si lasciano solo sfiorare dalla voglia di crere musica d’atmosfera e si concentrano sui particolari, andando a creare otto brani differenti tra loro e dotati peraltro di buona personalità tra ci spicca quello meno doom in assoluto: quella “Bleak Endless Winter ” che inizia e si sviluppa con un riff di chitarra che farebbe la gioia dei germanici Rammstein in toto, tanto marziale è l’incedere, incalzante a tratti, rallentatissimo in altri. Gioca con la sua ugola il singer, fino a chiudersi in un rantolo struggente ed accorato, prima di tornare a ringhiare furioso contro il mondo, non prima di un assolo di chitarra semplice quanto efficace e orecchiable… La vera hit del disco a parere dello scribacchino sottoscrito.
Le altre song si caratterizzano soprattutto per il continuo inserimento di azzeccati cori dal vago sapore gothic, malinconici quel tanto che basta a spingere la nebbia anche attorno al più gaudente ascoltatore.
E allora ecco brani quali “Fhater”, in cui ancora di ottima caratura sono le espresive linee vocali del buon Arkley, che non disdegna la toccatina drammatica supportato dalla omnipresente cantante femminile dalla voce cristallina e addolorata.
I nostri ci sorprendono ancora con l’attacco quasi Thrash della successiva “Graven Years”, il cui ritmo è giocato tra riffoni pesanti come macigni e improvvise tirate di freno a mano.
Insomma, alla fine un lavoro originale e di buona fattura, che certo non farà parlare di disco dell’anno ma si può assolutamente acquistare ed ascoltare con piacere, chiedendosi perchè band come questa, che nonostante tutto hanno discreta personalità e buone capacità tecniche non riescano per anni ad uscire dai patrii confini.. discorso purtroppo validissimo anche per molte italiche realtà.

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