Sempre più invischiato in quel calderone mediatico nel quale, “mediaticamente”, sputava ai tempi di ‘Mechanical Animals’, l’Antichrist Superstar che fu torna a calcare le scene in una veste sempre più lontana dalla carnevalesca figura che denigrava “Mr. Superstar” musicali e non. Si sa, però, che tutto cambia. Oggi è un altro giorno e, non appena le patine delle riviste finiscono di asfaltargli la strada con la Von Teese-soap, Brian Warner esce a sorpresa dallo studio in cui era entrato Marilyn Manson, provando a camminare su quel terreno che, per copione, aveva sempre descritto come acerrimo nemico.

In fondo, questa volta più delle altre, la coerenza è la protagonista di un disco che l’artista in questione aveva annunciato, già da tempo, come opera autobiografica. Promessa mantenuta. “Eat Me, Drink Me” è il ritratto dell’attuale forma assunta dal reverendo in calze a rete: una figura tristemente spoglia e scoperta. Spoglia perchè, oltre che priva di maschera, rimasta orfana di tutti quei musicisti che, orbitandogli attorno, avevano garantito un tangibile senso musicale, oltre che figurativo; scoperta perchè senza quel travestimento e quei compagni di viaggio esce allo scoperto nient’altro che un personaggio in evidente ed inopinabile difficoltà. Gli undici brani del nuovo disco ne sono la riprova inattaccabile. Merce insipida, inconsistente che, oltre che mostrarsi nettamente inferiore al passato, affaccia sull’anomala incapacità di provarci, animarsi, acquistare un senso. Delle buone opere, che su un sito dedicato al metal fa poco cool definire importanti, è rimasto poco e niente. C’è l’incedere beffardo e tremante di un maestro di teatralità, c’è il tentativo di perseguire quella vecchia e fascinosa sensualità sonora, c’è quella voce calda ed espressiva che racconta disagio. Il resto rasenta il buio, la fine, la triste sincerità di un signore che tutti preferivano impegnato nella sua recita di predicatore colorito ed eccessivo. Un trasgressivo di scena, stupendo alter ego di colui che oggi produce un album sgonfio e scialbo, piantato sullo stesso tempo per cinquanta minuti, monotono e privo di un sussulto che sia degno di questo nome. Via l’industrial e dentro chitarrine da hit, via il tentativo a tutti i costi e dentro la pigrizia compositiva, al chiodo l’abito di scena e fuori il viso di tutti i giorni. Quello che consente l’equilibrio sul nuovo asfalto patinato, quello che più è in grado di ricondurlo ad una saga da vero Mr. Superstar, quello che in se stesso trova solo una sbiadita controfigura di ciò che il suo pubblico vuole ricordare.

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