Vado finalmente a recensire il nuovo lavoro degli spagnoli Mago de Oz che, seguendo quanto già fatto con il precedente “Finistera”, si presenta sotto forma di concept-album, scritto come al solito dalla mente del gruppo, il batterista Txus.
Come nel precedente concept, sono mischiati realtà e immaginazione, passato e presente, in un racconto fortemente critico e riccamente metaforico.
Dal lato prettamente musicale invece abbiamo la conferma, anzi, la consacrazione dei Mago de Oz come una delle realtà più fresche, personali e, perchè no, geniali dell’intero panorama metal europeo. Il punto di partenza della loro proposta può essere senza ombra di dubbio avvicinato a quello dei pionieri del folk metal, ovvero gli Skyclad, ma questo risulta vero solo ad una analisi superficiale. Innanzitutto perchè i Mago de Oz sono galiziani, e da sempre la “Galizia Celta” ha nelle sue radici popolari certe sonorità e strumenti. In secondo luogo perchè sono molto forti influenze rock degli anni ’70, su tutte quelle dei Deep Purple, e l’uso dell’hammond, anche solista, in diversi brani del disco ne è di certo conferma.
Ma la cosa di cui bisogna rendere merito assoluto ai Mago de Oz è che tutto questo calderone di influenze sfocia in un risultato fortemente personale, di cui fa parte anche la “particolare” voce di Josè, che li mette un gradino sopra a tutto il marasma di band e pseudo-band melodiche che affollano il Vecchio Continente. Infine, come ulteriore valore aggiunto, il coraggio di cantare nella loro lingua madre (anche se a dirla tutta cantano in castillano e non in galiziano), esempio che a mio avviso dovrebbero cominciare a seguire anche i gruppi italiani, nonostante la pressione delle etichette.

Ma passiamo ora ad una analisi più diretta di “Gaia”, che si apre con un lungo intro (quasi tre minuti) riccamente sinfonico che mi ha portato alla mente, non so perchè, quelli degli Angra. Alla fine dela “Oberdura MDXX” ti aspetti il classico attacco tirato e sparato a mille, ma la title-track si apre invece con un dolce pianoforte, e acquisisce vigore solo dopo qualche minuto, con l’ingresso di tutti gli altri strumenti, violino e flauto in primis. E’ un lungo, stupendo brano della durata di oltre undici minuti, e fa il paio con l’altra lunga “suite”, quella conclusiva, ovvero “La Venganza de Gaia”, della durata pressochè identica.
In mezzo a questi due (splendidi) estremi, tanta ottima musica, tanto metal, tanta musica folk e popolare, a tratti danzereccia. Sì perchè ad esempio con la strumentale “La Leyenda de la Llorona”, e con i suoi violini, i suoi flauti e i suoi tamburelli, sfido chiunque a non immaginare o addirittura accennare una classica danza popolare, magari in una sera d’estate attorno ad un falò.
La gioia e l’allegria sprigionati sono una delle caratteristiche che più mi ha fatto amare i Mago de Oz e questo disco in particolare, anche perchè ad accompagnarle vi sono, come già detto, testi seri e che vogliono comunicare qualche cosa. Ma anche gli arrangiamenti, curati in ogni minimo particolare ma mai pomposi o pesanti, sono uno dei punti di forza dei galiziani.
Unica croce (ma anche delizia) del gruppo è la voce del citato Josè, che tanto è calda, espressiva e particolare su toni medio-bassi, tanto è sgraziata quando vuole salire su per ottave troppo alte. Fortunatamente in questo ultimo lavoro riesce a contenersi più che nei precedenti, facendo pesare meno questo unico difetto che mi sento di attribuire alla band. Per il resto, canzoni come “La Costa del Silencio” (di cui è stato realizzato anche un video) sono lì a testimoniare il valore di un gruppo che ha fatto, ma può ancora fare, tanta strada.

Un acquisto imprescindibile per tutti gli amanti del folk metal ma un acquisto obbligato anche per tutti quelli che cercano qualcosa di melodico ma non banale o che dia dopo due ascolti l’idea di “già sentito”.

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