Ennesimo “supergruppo” al debutto, i Leash Law sono una graziosa sorpresa da parte di GDF, che ha pensato bene di omaggiarmene facendoli scivolare di soppiatto in mezzo agli altri promo da recensire… (eheh) (Buahahahahaha.. ndGDF)
Una volta aperto il pacco sono stato infatti accolto da una copertina orribile (ovviamente esaltata nella bio) sulla quale campeggiava un nome a me del tutto sconosciuto.
Una volta letta la line-up, tuttavia, le cose sembravano essere meno peggio del previsto: fra i componenti dei Leash Law figurano infatti nomi piuttosto noti come Wade Black (ex-cantante dei Seven Witches nonchè voce su “Astronomica”, il comeback dei Crimson Glory datato 1999) e soprattutto Richard Christy, uno dei batteristi metal più quotati dell’ultimo decennio.
A completare le fila della band troviamo poi il chitarrista Emo Mowery e il bassista Stephen Elder, entrambi con diverse esperienze di livello alle spalle, nonchè il solista Rick Renstrom, acclamato da molti come un astro nascente della chitarra.
Le belle speranze generate da tali premesse non hanno tuttavia impiegato molto a tramutarsi in una diffusa sensazione che riassumerei in una sola parola: noia.

L’opener “Fight”, tutto sommato, non è male: Black, pur non essendomi mai piaciuto granchè, offre una buona prova (destinata purtroppo a rimanere un caso quasi isolato), e l’assolo di Renstrom è ispirato.
Ecco inoltre svelato il mistero sul genere suonato dai Leash Law: in sostanza, direi un heavy metal americano con forti influenze di power europeo, qualche tinta più epica che rimanda talvolta a band come Manowar e Jag Panzer e una spruzzata di Judas Priest anni ’90.
Sfortunatamente, già le successive “Dogface” e “Stealing Grace”, pur se ancora pezzi dignitosi, mostrano un calo qualitativo direttamente proporzionale alla stanchezza crescente dell’ascoltatore. Il primo tonfo si ha con “Hail to Blood”, un pezzo pomposo e senza nè capo nè
coda che si dipana goffamente all’inseguimento di improbabili respiri epici. Un poco meglio la ballad “Banion”, che seppur penalizzata dai suoni asettici del disco (al solito oggetto di grande enfasi nella bio…andrebbe spiegato a certa gente che “più tracce” non significa “più qualità”) ritrova un Wade Black stranamente intonato e convincente.
Ogni ottimismo è tuttavia affossato dalla successiva “Better When Betrayed”, probabilmente il pezzo più irritante che abbia sentito nel 2004: le già poco incisive chitarre vengono “aiutate” da delle tastiere rubate a qualche film anni ’60, e la voce di Black riesce a ricreare perfettamente lo stridere di certi gessetti su una lavagna.
Meglio risparmiarvi la descrizione delle rimanenti tre tracce, credo di essere già stato abbastanza chiaro.

Ovviamente, come tutte le cose, anche in “Dogface” ci sono degli aspetti positivi: gli assoli di Renstrom sono generalmente piacevoli (e credo che un ascolto al suo disco solista “Until the Bitter End” lo darò), qualche bel riff o cambio qua e là si trova, e diversi testi (la cosa migliore del disco) sono tutt’altro che scontati.
Tuttavia questo non basta a salvare un disco che ora toglierò definitivamente dal lettore e che non credo proprio vi tornerà mai più. Peccato, perchè credo ancora che da musicisti simili sia lecito aspettarsi ben altro.

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