In trent’anni di carriera i Journey hanno fornito alla causa dell’AOR e del rock melodico in generale così tanto materiale, spunti, idee che ci vorrebbero davvero molte pagine per spiegare la loro importanza e grandezza. Dopo quattro anni di silenzio tornano con questo “Generations”, album che ha scatenato in furibonde ed interminabili discussioni i milioni di fan sparpagliati per tutto il mondo.

Affidandosi alle mani esperte di un produttore del calibro di Kevin Elson – che ha lavorato con pezzi da 90 come Europe, Nightranger, Mr Big, Lynyrd Skynyrd e Aerosmith ma che soprattutto ha prodotto in passato alcuni dei capolavori del gruppo stesso – molti dei fan probabilmente avevano pensato ad un riavvicinamento agli stessi lavori, restando quindi spiazzati tanto dalla produzione più grezza e “in your face” di questo disco (il tutto ovviamente tenendo sempre a mente gli standard della band e del genere proposto) quanto da una scaletta costituita da brani più guitar-oriented e quindi meno a la Journey, stando almeno a quello a cui ci avevano abituato i Nostri negli ultimi due lavori. Se aggiungiamo a questo la bizzarra idea di permettere a ciascuno dei cinque componenti di esibirsi almeno una volta dietro il microfono, con risultati in verità non sempre pienamente convincenti, possiamo capire come questo nuovo capitolo della storia del gruppo californiano abbia lasciato interdetti non pochi appassionati.

Dal punto di vista prettamente musicale “Generations” suona quindi più aggressivo e diretto, o almeno una parte di esso. Sono infatti sempre presenti quei brani dalla struttura ariosa, finemente cesellati da quelle incredibili armonie (vocali e non) che sono un po’ il marchio di fabbrica dei Journey, come la splendida opener “Faith In The Heartland” o le due ballad “Knowing That You Love Me” e “Beyond The Clouds”, così come non mancano quei mid tempo che hanno spesso fatto la fortuna del gruppo, come “The Place In Your Heart” e “It’s Never Too Late”, ma accanto ad essi trovano ora posto dei brani decisamente più rock che, soprattutto nella seconda parte del disco, sembrano stonare se non addirittura parzialmente fuori luogo. Niente da dire naturalmente ai brani presi singolarmente, che sono sempre di una classe superiore alla media, ma se “In Self-Defense” è una cover del periodo di Schon con Hammer decisamente hard rock da Neal stesso cantata e impreziosita, se “Better Together” sembra una rilettura degli Hardline e se con “Gone Crazy” sembra di sentire un mix di Van Halen e ZZ Top capirete come si possa facilmente rimanere spiazzati e sorpresi. Nel mezzo poi dei brani sicuramente piacevoli ma che per una migliore fruizione dell’album avrebbero decisamente giovato di un leggero snellimento (“Butterfly (She Flies Alone)” e “Believe”).

Discutere delle prestazioni strumentistiche del gruppo mi sembra fuori luogo; dal punto di vista vocale se una menzione particolare la meritano senza dubbio Steve Augeri, autore di una performance a dir poco perfetta, e il sorprendente Deen Castronovo, che ci piacerebbe davvero riascoltare in futuro, bisogna anche sottolineare, come sopra detto, le interpretazioni non certo brillanti degli altri, a maggior ragione pensando a quello che poteva essere il risultato se le stesse tracce le avessero lasciate al titolare del ruolo (soprattutto “Every Generations” che non dispiace ma che Augeri avrebbe reso sicuramente meglio).

Nonostante i difetti menzionati l’attesissimo “Generations” tutto sommato globalmente soddisfa e alla lunga perfino convince, risultando piacevole e per certi versi anche fresco e coraggioso, mostrando ancora come le capacità tecnico-compositive dei Journey non siano affatto minate dal tempo che scorre, scontentando o deludendo alcuni ma convincendo o riavvicinando altri, com’è normale che sia per qualsiasi disco curato e pensato di qualsiasi gruppo dotato di personalità.

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