Accostarsi ad un disco con la speranza che, una volta ascoltato, niente possa mai avvicinarsi all’ineguagliabile bruttezza del suo abominevole artwork. E’ ciò che avviene una volta ricevuto tra le mani ‘Wrath-Divine’, debutto degli Herratik (ex Abortus) su una Casket Music che mostra, ancora una volta, la sua tendenza a fare incetta di tutto, senza un orientamento che sia degno di questo nome.

Una volta inserito il disco nel lettore, per fortuna della band australiana e di chi ascolterà questo disco, i timori suscitati da quell’obrobrio in copertina si ritirano sotto i colpi di una proposta piacevolmente aggressiva e ben concepita. I punti cardine, sui quali si basano i quattordici brani presentati, sono quelli del più classico death-thrash che pesca a piene mani da band come Kreator, Dismember ed Unleashed. Brani rocciosi ma godibili, grazie ad un’ottima produzione ad opera di Astennu (ex Dimmu Borgir) ed una tendenza ad infarcire i pezzi con giuste melodie di buon gusto. A dispetto di ciò, i brani, oltre a risultare distinguibili e mai noiosi, riescono ad avere dalla loro una tendenza ad ammorbidirsi difficilmente grazie ad un songwriting spietato e fedele alla tradizione. E’ così che, dall’inizio alla fine, il disco tende ad assalire senza cedimenti notevoli un ascoltatore che, avvicinandosi a questo lavoro, trova tutti gli ingredienti ricercati in un’opera del genere in termini di varietà, attenzione e ferocia. La sufficiente prova strumentale è eguagliata, a sua volta, da un growl di pari portata che, senza strafare, regge alle variazioni del riffing in maniera adeguata e mai monolitica. I quattro musicisti badano al sodo, mostrandosi sempre coscienti dei propri limiti e dell’obiettivo che vogliono raggiungere, tentando di perseguirlo, se si esclude l’intro, dal primo all’ultimo secondo. La qualità generale è omogenea e mai abbattuta da cadute di stile fini a sè stesse. Difetti? Una durata francamente eccessiva (anche per compositori “di mestiere” come gli Herratik) e la solita mancanza d’originalità che è il vero tallone d’achille di un disco in cui, volenti o nolenti, è inevitabile scorgere pesanti e ombrose presenze.

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