Con l’irruenza e la sicurezza di chi, conscio del proprio valore, sa di non essere uno dei tanti, tornano i prolifici Hatesphere con il secondo album dal loro approdo su SPV. Un arrivo che, contro ogni aspettativa, non ha scalfito di una virgola l’attitudine di una band da sempre estranea dalla massa ma che al contrario, con le ultime uscite, riesce decisamente a guadagnare sul fattore personalità.

Sarà l’esperienza, sarà una vena particolarmente ispirata, saranno gli impegni che influenzano i membri della band, ma la realtà dice che la formazione danese riesce a piazzare un altro gradito colpo che va ad alimentare la gioia di chi li ha amati negli ultimi tempi e, in particolare, con il precedente ‘The Sickness Within’. Qui la nuova anima della band viene enfatizzata andando a creare un disco di personalità rara. Non più il classico death-thrash vario e nervoso ma una formula che, oltre a varietà e potenza, ha un fascino tutto suo. Un suono caldo e struggente investito da un flavour sempre sospeso tra urbano e southern. Chitarre che, alle classiche sfuriate di estrazione svedese, alternano divagazioni dal sapore stradaiolo, riff incalzanti al limite dell’hardcore ed un’attitudine all’insegna del grezzo. In questo contesto, fondamentale risulta, oltre ad un songwriting intraprendente e dalla spettacolare resa, l’apporto di uno Jacob Bredahl tornato arricchito dall’esperienza con gli Allhelluja. Quello che è ormai uno dei più capaci e versatili singer del genere, infatti, mette a disposizione del gruppo la tanto lodata suggestione dettata dal suo side-project senza mai tentare di costruirne una versione estremizzata, ma andando ad arricchirla. La sua voce accompagna le imprevedibili strutture dei brani con la maestria di chi sa di poterle reggere senza affanni. E’ così che la teatralità del suo growl si accompagna quegli elementi che avevano caratterizzato l’esordio sulla nuova etichetta, tra scream, puliti vitriolici e quant’altro, ora gestiti con una disarmante padronanza. Un’evoluzione tanto fluida quanto riuscita cha ha sempre sembianze naturali e che non appare mai minimamente forzata.

Ancora un passo in avanti verso quel muro costruito mattone dopo mattone che, per volontà dei suoi creatori, vuole apparire sporcato in ogni minuzioso particolare: sia esso il riffing, un urlo o la produzione (in questo caso perfettamente sporcata per la missione). Un modo per dimostrare che guardare in avanti si può. Senza scuse, senza la presunzione di aver inventato qualcosa nè la furbizia di riciclare il passato; onestamente con la fatica che, ogni volta, comporta rompere la ricetta del death-thrash e ricostruirla con l’ingrediente che ne migliori il sapore: l’elemento Hatesphere.

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