Arriva finalmente sul mercato il primo album dei Furor Gallico, band nostrana che tanto (e bene) sta facendo parlare di sè ormai da tempo calcando le assi dei palchi di mezza Italia. Usciti sul mercato tempo fa con il primo Ep, 390 B.C. – The Gloriuos Down, i nostri si ripresentano con un lavoro autoprodotto ed autodistribuito che a tratti lascia davvero esterefatti in senso positivo tanta è la complessità dei brani e la linearità di intenti e idee dei nostrani guerrieri.
Artefici del ritorno prepotente della scena folk metal italiana con gli orobici Folkstone, anch’essi reduci da un ottimo nuovo lavoro, i Furor Gallico si posizionano su coordinate decisamente differenti, preferendo assalire l’ascoltatore con un intrigante mix di cattiveria e energia.
Una sorta di blend tra gli Eluveitie e i Blind Guardian, con sempre un occhio di riguardo per i capostipiti Cruachan, in cui tutte le componenti (folk e metal) si fondono e si confondono ma con un perfetto bilanciamento, raro e gradevole.
Ottimo il lavoro di vocals, con Pagan che si cimenta su tre differenti stili, mettendo in evidenza una grande versatilità e padronanza, tale da rendere avvincente ogni singolo brano, giocato sull’inseguimento del growl allo screaming, con l’alternanza tra i due stili, con inserti di clean in cui il buon Pagan obiettivamente sembra Hansi Kursch.
Dietro, sopra e sotto queste linee vocali, un intero universo di strumenti che si incrociano, dall’arpa al violino, al bouzouki, alla chitarra elettrica, in un intreccio stimolante e variopinto.
I testi, ricercati e frutto di passione viscerale per la storia, i miti e le leggende dei tempi che furono, si fondono perfettamente nell’armonia delle song, che grazie alla scelta degli strumenti e dei ritmi, delle tonalità e delle tipologie di voce riesco ad esprimere drammaticità a tratti, euforia ad altri.
“The Gods Have Returned” è proprio questo, un gioco di sofferenza e angoscia, in cui l’arpa scandisce un ritmo cadenzato e triste, e su cui le voci disperate si inseguono in una rincorsa misteriosa ed opprimente.
Non mancano poi i brani più decisi e diretti, quali “Venti di Imbolc”, in cui il growl riesce ad aizzare l’ascoltatore e che dovrebbe garantire il giusto pathos e “pogo” sotto le assi dei futuri concerti del combo italico.
Molto più danza medioevale è la bella e veloce “Curmisagios”, cantata in dialetto, uno dei pezzi più curiosi ma allo stesso tempi riusciti dell’intero lavoro.
Per non farsi mancare nulla, il drummer si ricava il suo attimo di gloria in “Miracoulus Child”, altro brano cantato in lingua italiana e caratterizzato a tratti da suoni quasi black, su cui intervengono poi l’omnipresente e eclettico Merogaius, che si sbizzarrisce a destra e a manca nell’album con strumenti vari e diversissimi, e l’arpa di Becky, per un finale intrigante e nebuloso, che si apre sulla dolcezza delle note medievaleggianti di “Medhelan”, uno dei diversi intramezzi musicali che allietano e rilassano l’ascoltatore.
In definitiva, un ottimo lavoro, un grandissimo debutto (soprattutto, occorre rimarcarlo, poichè autoprodotto) senza alcun calo di tensione e senza pezzi di “riempimento”, per un’ora scarsa di ottima musica.
Un album e una band che nonostante la poca esperienza discografica hanno maturato idee decise e compatte nel corso degli anni passati a suonare live, non cercando di copiare i capisaldi del genere, che oggi sta vivendo obiettivamente una seconda giovinezza, andando a mettere in risalto gli strumenti più disparati a seconda delle caratteristiche delle song e dei testi in esse contenute, con il violino a ritagliarsi amplissimi spazi, e con il solo lavoro di guitars a volte leggermente in secondo piano ma mai coperto o nascosto.
Insomma, un album che certamente non lascerà deluso nessuno e che può essere davvero un buon seme gettato nle terreno per il futuro di questa band.

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