A due anni di distanza dal precedente “Killing The Dragon” torna sul mercato Ronnie James Dio partorendo il disco numero dieci della sua carriera solistica. Separatosi dal compagno di tante avventure, il bassista Jimmy Bain, il Nostro ha reclutato per questo importante traguardo il chitarrista Craig Goldy (ex Giuffria, e già presente in “Dream Evil” e “Magica”), il batterista Simon Wright (ex UFO e AC/DC), il tastierista Scott Warren (ex Keel) e il bassista Jeff Pilson (ex Dokken), subito sostituito per il tour dall’altrettanto celebre Rudy Sarzo (ex Ozzy Osbourne, Quiet Riot, Whitesnake).
Con simili nomi a supporto della sua divina ugola la speranza di ottenere finalmente da Dio un disco capace di annichilire ogni incauto denigratore della nostra amata musica senza andare necessariamente a pescare dagli scaffali degli anni ’80 era alta, ma così purtroppo, ancora una volta, non è.

“Master Of The Moon” è un disco che non si schioda di una virgola dal classico schema a cui Dio ci ha abituato negli anni, un disco cioè di heavy dalle solite tipiche caratteristiche (primo pezzo frenetico ed arrembante a la “We Rock” o “Stand Up And Shout”, titletrack a seguire, alternanza sistematica di granitici midtempo ora epici ora “oscuri”, buoni riff e assoli, etc), eseguito naturalmente in maniera magistrale (e con quel popò di gente ci mancherebbe altro), registrato in maniera impeccabile, ma caratterizzato questa volta più che mai da un songwriting discontinuo, a tratti ripetitivo e decisamente poco brillante, che strappa al sottoscritto una risicatissima sufficienza solo grazie alle meravigliose ed inossidabili doti canore che madre natura ha donato all’intramontabile frontman.

Nell’otto volante del disco, oltre all’iniziale e convincente “One More For The Road”, si salvano la graffiante “The End Of The World”, dal riffing tipicamente AC/DC-iano, la più moderna ma troppo tirata per le lunghe “The Eyes” (provate ad ascoltare l’ultimo minuto senza premere il tasto per passare al brano successivo) e la conclusiva “In Dreams”, troppo poco incisivo tutto il resto, troppo anonimo e banale (escludendo la voce naturalmente), perfino monotono, tant’è che mi sono ritrovato ad aspettare il chorus di “Master Of The Moon” in “The Man Who Would Be King”…

Se già avevate rinunciato ai fasti dei primi due album scordatevi adesso l’energia e la convinzione che almeno quasi sempre si respirava nei dischi di Dio, e se già “Killing The Dragon” vi aveva deluso passate oltre, se ci riuscite. Consigliato, peraltro inutilmente per la sua stessa qualifica, solo ad un incrollabile die hard fan.

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