Sono passati parecchi anni dall’ultima volta in cui ho sentito parlare di Brian Robertson; dalle pagine de “La sottile linea bianca”, la controversa autobiografia di Lemmy uscita nel 2002, ne veniva fuori il ritratto di un chitarrista fuori posto e bizzarro, capitato nella band sbagliata al momento sbagliato (stava per uscire il controverso “Another Perfect Day”). Mr. Kilmister non andò troppo per il sottile nei confronti del chitarrista scozzese e a qualcuno era sembrato davvero ingeneroso il trattamento riservato a quell’artista che aveva apportato un deciso contributo ai Thin Lizzy di “Jailbreak” e “Johnny The Fox”. Di Brian Robertson da allora si sono letteralmente perse le tracce: fugaci collaborazione finite presto nel dimenticatoio, unite a qualche rempatriata coi vecchi compagni dei Thin Lizzy, il suo primo vero grande amore, dopodiché stop. Di colpo Robertson sembrò essersi tramutato in una di quelle figure destinate a riempire gli spazi di metal archives.com; una storia come tante, quella di un eroe sul viale del tramonto che tanto aveva dato ma che in cuor suo sapeva di avere ancora tanto da dare. Come nelle migliori sceneggiature, arriva puntuale l’occasione che cambia il corso degli eventi. Una pila di outtakes rispolverate, prestate ad un amico e destinate probabilmente al dimenticatoio costituiscono infatti la base di questo “Diamonds And Dirt”; talmente buono era a detta della persona in questione il materiale, che pareva necessario mettere su una band e farne un disco, e che band! Ian Haugland (Europe), Leif Sundin (MSG) e Nahley Pahlsson (Treat, Therion), oltre all’altisonante pedigree sono elementi che farebbero invidia a qualsiasi compagine hard rock. Quello che ne esce è un miscuglio eterogeneo di umori e stili, a metà fra l’antologia e la raccolta di inediti. Aleggia lo spettro benevolo dei Thin Lizzy e non poteva essere altrimenti, il periodo di permanenza nella band irlandese coincide infatti con quello di massimo splendore artistico del buon Brian. “Running Back” e “It’s Only Money”, quì opportunamente rivisitate secondo il gusto dell’artista, costituiscono assieme all’inedita “Blues Boy” il ricordo più nitido periodo prolifico in compagnia di Phil Lynott. Tre pezzi invece ripercorrono un’altra collaborazione, quella con Frankie Miller, chitarrista compositore molto popolare nel Regno Unito alla fine dei ‘70, autore in coppia con Robertson “Dancing In The Rain” (1986). Si tratta di pezzi boogie rock asciutti e trascinanti come l’anthemica “Do It Will We Drop” e rappresentano almeno per chi scrive la punta di diamante del disco. Né per efficacia né tantomeno per originalità si fanno notare i pezzi scritti da Brian, fatta eccezione per “Texas Wind”, mai al di là di un onesto hard rock senza particolari sussulti. “Diamonds And Dirt” è rassicurante come una rimpatriata fra amici, una sorta di percorso a ritroso nella carriera di una rockstar in pensione che, come lascia intuire il titolo, è ben consapevole di non potere competere con i fasti del passato ma che si riscopre ancora capace di regalare forti vibrazioni. Consigliato a chi ama l’hard rock verace.

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