Abbastanza pazzi furiosi da rientrare nella categoria del mathcore, sufficientemente lineari da uscirvi in punta di piedi per approdare nel vastissimo calderone del metalcore. In bilico sulla lama di un rasoio, i vercellesi Arcadia arrivano oggi al quarto disco ufficiale dopo cambi di formazione, di stile e di proposta. Per dare un’idea di cosa potete trovare all’interno di “Roy Philip Nohl”, pensate ad una versione schizofrenica dei Rage Against The Machine che si fumano l’impossibile in un’improbabile jam session con i The Dillinger Escape Plan ed avrete all’incirca una vaga impressione di quella che è la musica degli Arcadia. La melodia non manca, il riffing è in certi punti quasi thrash ed i ritmi sono rallentati o accelerati a dovere per dei brani che non conoscono mezze misure e sono, a loro modo, piuttosto estremi dal punto di vista della costruzione strutturale.
Il grosso rischio in questi casi è di creare tanta confusione nell’ascoltatore occasionale e, in effetti, il trio mette sul fuoco tantissima carne, forse fin troppa e genera un lotto di 10 brani (il primo è solo un’intro) che danno vita ad un senso di ansia e ad una spossatezza generale, una volta concluso l’ascolto, da dover rendere necessaria una pausa prima di premere nuovamente il tasto play. Non ho idea se questo fosse uno scopo prefissato o un semplice effetto collaterale, ma il risultato è un disco di difficile digestione.
Insomma, gli Arcadia si pongono un obiettivo complicato e non hanno la minima intenzione di voler piacere a tutti, ma quello che si può dire è che, nel loro piccolo, hanno dato alle stampe un lavoro che potrebbe essere avanti coi tempi. Ci vorrà solo qualche anno prima di poter decidere se si tratti di un capolavoro o, al contrario, di un album destinato al dimenticatoio. In ogni caso “Roy Philip Nohl” non è un’opera da prendere con leggerezza.

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